I dati sono chiari: la speranza di vita della popolazione italiana – ma in generale è una tendenza comune ai paesi occidentali – sta nettamente crescendo.

cure1 Al punto che, per i nati nel 2000, si colloca a 102 anni, con un sensibile trend di crescita nel breve periodo. È sufficiente pensare che, per i nati nel 2007, tale previsione si spinge fino ai 104 anni. Inutile sottolineare come tali cifre introducano sensibili cambiamenti nella composizione della popolazione nei paesi occidentali, con effetti a cascata politici, sociologici ed economici il cui impatto riguarda ogni ambito della vita quotidiana. È infatti palese come l’allungamento della speranza di vita comporti una maggiore incidenza delle malattie degenerative: attualmente negli Stati Uniti l’Alzheimer è la quinta causa di morte, ma se le prime quattro (malattie respiratorie, cardiache, cerebrovascolari e tumori) sono in diminuzione, la morte per Alzheimer solo dal 2004 al 2008 è aumentata del 66%. Un’incidenza che potrebbe diventare massiccia e che pertanto impone una riflessione sulla gestione delle demenze innanzitutto da parte dei professionisti che ogni giorno devono gestire situazioni che, in diversi casi, impongono scelte difficili.

Una situazione spesso sottovalutata

Le demenze senili hanno generalmente un andamento degenerativo lento e costante, tuttavia i malati con demenza avanzata non sono spesso percepiti dagli operatori sanitari come terminali. Si tratta di una considerazione assai importante, in quanto queste persone spesso ricevono trattamenti aggressivi (sonde per nutrizione, prelievi per esami laboratorio, ospedalizzazione) sperimentando dolore e sofferenza all’approssimarsi della morte. Negli ultimi mesi di vita, infatti, all’approssimarsi di sintomi tipici come dispnea, dolore, decubiti maggiori del secondo stadio e agitazione, spesso si reagisce con ricoveri in ospedale o accessi al pronto soccorso, soluzioni che fondamentalmente intensificano la situazione di sofferenza senza introdurre alcun tipo di miglioramento nel quadro generale del paziente.

cure2Secondo uno studio presentato da Mitchell nel 2009, gli ospiti i cui familiari avevano chiara la prognosi a breve termine, venivano sottoposti in misura minore ad atti terapeutici intensivi: il primo step, quindi, riguarda la capacità di discernimento da parte del team sanitario sulla situazione terminale dell’anziano e sulla conseguente capacità di comunicazione alla famiglia delle reali condizioni e probabili tempistiche di vita. “Gli operatori – spiega il Dott. Franco Toscani, Direttore Scientifico dell’Istituto di Ricerca in Medicina Palliativa Lino Maestroni – tendono a sovrastimare la prognosi dei malati con esistono infatti molte evidenze che dimostrano come gli anziani patiscano sofferenze evitabili a causa dell’insufficiente valutazione dei sintomi, del loro inadeguato trattamento e per la mancanza di accesso alle cure palliative. Sino ad ora le cure palliative si sono confrontate con malati di cancro, e in questo campo sono state efficaci nel ridurre la sofferenza alla fine della vita. È arrivato però il momento che le cure palliative diventino parte delle politiche sanitarie a favore degli anziani, e parte integrante dei servizi a loro dedicati”.

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